Il settore politico, come quello creativo e digitale, sono ambienti lavorativi alle volte subdoli e brutali, dove le persone assumono ma non vogliono retribuire. Peggio ancora, dove fanno sembrare la mancata retribuzione come qualcosa di normale, da compensare con promesse di gloria o di visibilità come valuta alternativa, con cui però non si pagano gli affitti e le bollette.

In questa campagna elettorale ad esempio, fioccano le proposte dei partiti, anche quelli che promettono giustizia sul lavoro, retribuzione minima, stage pagati, di arruolare a gratis per distribuzione di volantini, banchetti raccolte firme, e altre mansioni da comitato elettorale.

Ma chi è che ha tanto tempo libero da potersi mettere a fare il porta a porta per i partiti? La persona disoccupata. E le si vuole dare maggiore dignità, arruolandola in cambio di una qualche visibilità sui social del partito? Non si campa di selfie su facebook.

Se ci si lamenta che i partiti richiedono troppo tempo, non retribuito, per mansioni di promozione, si ottiene come risposta che chi non vuole dedicare il proprio tempo come investimento per un futuro migliore della società, evidentemente non ha lo spirito di sacrificio adatto per intraprendere la carriera politica.

Potremmo rispondere che non tutti possono concedersi il lusso di lavorare gratis tutti i giorni e i fine settimana per un partito. E che se basta la buona causa, perché il lavoro non debba essere retribuito, anche i politici dovrebbero accettare di non essere retribuiti una volta eletti, ma di fare il mestiere solo per la gloria.

Peggio ancora i partiti digitali, che nascono come funghi. Oltre a devastare i potenziali elettori con l’idea che si possano sviluppare progetti a costo zero, perché si trova sempre chi è disposto alla militanza digitale, disseminano precarietà e incertezza, favorendo su larga scala il lavoro non retribuito, con la scusa che è online; mentre promettono di lottare per condizioni migliori per i lavoratori e le lavoratrici.

Questa ambiguità si riversa anche nelle sensazioni provate durante il lavoro non retribuito per i politici e condiziona i comportamenti di dipendenza psicologica che si vanno a instaurare, con persone disposte ad essere umiliate per mesi o per anni, con la promessa di una poltrona.

E che dire delle assistenti parlamentari retribuite a 600 euro al mese? Anche loro devono lavorare solo per la gloria? E poi magari prestarsi anche a mansioni extra alla “Monica Lewinsky”? Mentre il parlamentare diffonde sui social le sue arringhe per il giusto lavoro? Salario minimo? Eguaglianza di uomini e donne sul posto di lavoro?

Quando si lavora per un politico, non si lavora per la propria di gloria, ma per quella del datore di lavoro. Il lavoro totalmente o parzialmente non retribuito è un affare per i partiti. Azzera il costo del personale. Chi non accetta lo sfruttamento viene rimpiazzato facilmente, dal momento che i rapporti sono quasi tutti anaffettivi, di mero uso dell'altro o altra come risorsa.

I partiti in queto modo preparano i giovani ad essere sfruttati ingiustamente dal mondo del lavoro che li attende, con tirocini, stage e praticantati spesso non retribuiti o sotto retribuiti.

Con questo non voglio demonizzare il volontariato, anche per la politica, ma se di volontariato si deve trattare... non ci dovrebbe essere un rapporto di lavoro subordinato e continuativo, con obblighi e doveri di partecipazione che sfiorano e superano le 8 ore al giorno.

La mia impressione, navigando su telegram nei canali dei partiti, è che tutti siano alla ricerca di lavoratori e lavoratrici gratis, per risparmiare nei costi di allestimento delle campagne elettorali, ma che non siano affatto in grado di accogliere e integrare questi eventuali volontari, offrendo loro una comunità che almeno li faccia sentire gratificati moralmente a compensazione del lavoro non pagato. Prevedo scarsa partecipazione alle chiamate di volontariato dei partiti, così organizzate, e molto astensionismo alle prossime politiche.

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